“Ma famme magnà, ma che me frega” tuonava imponente Sora Lella davanti a un inerme piatto di pasta al pomodoro in “7 chili in 7 giorni”, film cult degli anni Ottanta con Carlo Verdone e Renato Pozzetto.
Nella pellicola, i due protagonisti vogliono dare una svolta alla loro carriera aprendo una casa di cura per obesi che ben presto si trasformerà in un’improbabile trattoria.

Aldilà di questi bizzarri riferimenti cinefili, il cibo non è solo semplice sopravvivenza o sostentamento, anzi, è da sempre il motore che determina i rapporti tra classi sociali, costituendo un punto chiave nella rappresentazione del potere.

Ma è nato prima l’uomo, il cibo o il potere? Oserei dire quasi certamente l’ultimo. In etologia, infatti, è ben chiaro che il momento del pasto all’interno di un branco scandisca le gerarchie di potere tra gli animali stessi. E così era anche per i nostri avi, i primi ominidi, i quali determinavano i rapporti di potere proprio durante il pasto principale, grazie anche alla domesticazione del fuoco.

È da sempre così, ancora prima che l'uomo diventasse uomo: il cibo è il perno su cui si basano le relazioni sociali, su cui la società, per come la conosciamo oggi, ha cominciato a strutturarsi.

I primi cuochi nascono nel mondo romano già dal I secolo a.C., i quali intorno ai banchetti costruivano una vera a propria coreografia di attori principali e secondari, un sistema di potere che andava ben aldilà del semplice pasto ma che determinava i ruoli nevralgici dell’antica Roma.

Lo stesso Carlo Magno, secoli dopo, utilizzava il suo incontentabile appetito come strumento di rappresentazione del potere. Conosciuto come un vorace mangiatore, esibiva la sua ricchezza nutrendosi pubblicamente di enormi quantità di carne, confermando la sua forza, tanto fisica quanto economica, con dei pasti pazzeschi. Era considerato un onore potersi sedere alla sua tavola, erano infatti invitati tutti i più notabili dell’Impero: ancora una volta un'esibizione di potere attraverso l'appetito.

La tavola divenne poi il luogo politico per eccellenza nella Versailles di Luigi XIV. Più che un pranzo era una vera e propria cerimonia, dove si esaltava la supremazia del Re e, in base ai posti a sedere, venivano determinati i rapporti e le gerarchie di potere all’interno della Corte: man mano che si scalava e ci si allontanava dal centro del tavolo, simbolicamente ci si allontanava anche dal centro del potere.

Sorte capitata a Luigi II di Condè, principe caduto oramai in disgrazia e sull’orlo della bancarotta, il quale invitò Luigi XIV per tre giorni nel suo Castello di Chantilly, con l’intento di riacquisirne i favori ed il rispettivo onore perduto attraverso una serie di sontuosi banchetti. Il pasticcere di corte, tale François Vatel, inventò così la crema chantilly, divenuta poi celebre in tutto il mondo. Una fama postuma in realtà, poiché Vatel si suicidò il giorno successivo tanto era il disonore derivato da alcuni ritardi nella consegna del pesce, risultato quindi insufficiente per la cena. Questo dimostra l'importanza che aveva la tavola dal punto di vista politico: il destino del suo principe era direttamente proporzionale alla riuscita dei suoi manicaretti.

L’Austria, nei primi decenni dell’Ottocento, scardinando l’attenzione dalla Francia napoleonica, si trasformò nel centro politico d'Europa. Furono i nove mesi del Congresso di Vienna che ridisegnarono gli assetti sociali e i confini politici, il tutto tra banchetti e valzer, da cui la celebre citazione “il Congresso danza ma non avanza”.

Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, rappresentante della Francia al congresso, portava l’enorme peso dei recenti disastri napoleonici e, per riconquistare la fiducia degli altri sovrani e convincerli della bontà della cultura d’oltralpe, decise di accompagnarsi a Marie-Antoine Carême, considerato "il primo chef delle celebrità" e passato alla storia per aver rivoluzionato la cucina francese. Il successo dell’arte di Carême fu talmente strepitoso da innescare una sorta di asta tra i presenti per averlo nelle rispettive cucine di corte. Il cuoco venne quindi ceduto allo zar Alessandro I, trasformando la cultura gastronomica russa e continuando a influenzarla per molti anni a venire.

Ancora una volta il Congresso di Vienna si è rivelato essere un crocevia nella storia politica, ma anche e soprattutto nella storia gastronomica europea.

Quando poi, decenni dopo, il potere passa dall’aristocrazia alla borghesia, i valori politici mutano. Quel modo di fare politica, con i balletti intorno a tavole imbandite e ricche, era tipico dell'aristocrazia. Ora si predilige morigeratezza e sobrietà rispetto allo sfarzo e all’ostentazione. La cucina esce così dallo scenario politico, spariscono i grandi banchetti diplomatici e il potere torna fisicamente nel suo luogo deputato, in parlamento.

Tali valori di serietà e moderazione pubblica si protraggono fino alle grandi guerre. L'Europa era devastata da anni di incessanti bombardamenti, la fame dilagava e i carichi di grano dagli Stati Uniti tardavano ad arrivare. L’immagine dei politici era messa quindi in discussione, non era opportuno che si facessero vedere mentre mangiavano. Mussolini, in un famoso pasto a Firenze con Hitler, pranzò con un modesto petto di pollo in bianco. E questo stile si mantenne per parecchi decenni: bisognerà attendere i primi G7 perché i grandi leader tornino a mostrarsi anche a tavola.

Con il recente avvento dei social network però, il legame tra cibo, potere e politica sembra tornato più forte che mai: è una consacrata norma oramai quella di conquistare qualche consenso decantando le qualità di un prodotto tipico o di un piatto locale, tra una panella, un Prosecco DOCG e una focaccia di Recco.

Michele Antonio Fino, giurista e professore all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, lo ha definito gastronazionalismo, cioè la rappresentazione dell'identità nazionale attraverso il cibo. Si mischiano però più concetti assieme: quello della visibilità personale, del piatto e della tipicità del luogo, prediligendo, il più delle volte, purtroppo la prima.

Sarà forse fame di fama?

Diceva bene Francesco Nuti in Caruso Pascoski: “La mortadella è comunista, il salame è socialista, il prosciutto è democristiano, la coppa liberale, le salsicce repubblicane, il prosciutto cotto è fascista”!